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Un pilota racconta

Straordinario! Ho conosciuto un pilota della Regia Aeronautica veterano della seconda guerra mondiale e che abita proprio a due passi da me, nel mio stesso quartiere. Praticamente “Next door”.

Un amico me ne aveva già parlato da tempo come una persona con una affascinante storia da raccontare: i suoi anni passati in aviazione. Ero scettico di poterlo incontrare, l’età avanzata o qualche acciacco o il comprensibile riserbo nel raccontare ad uno sconosciuto i fatti propri temevo potessero essere un ostacolo insuperabile. Mi sbagliavo. Ecco che l’incontro è bell’e combinato e suoniamo alla sua porta.

Ci apre un vecchietto affabile e simpatico, capace di mettermi subito a mio agio come se mi conoscesse da una vita. Conosce il mio amico già da tempo e così si occupa più di me che di lui. Gentile. Dopo qualche convenevole di rito, tanto per fare conoscenza, spedisce la badante in cucina senza troppi complimenti perché ora parliamo di “cose da uomini veri” come dice lui e mi fa accomodare in poltrona nel suo salottino. Mi guardo intorno: una vetrinetta con dei modellini; alle pareti onorificenze e medaglie, vedo anche una croce tedesca col suo nastrino bianco/rosso/nero. Poi gagliardetti con il Diavolo Rosso del 51 Stormo (o del 2° Gruppo Caccia di Bresso?) e di altri Reparti. Immagino che gli possano servire per stimolare opachi ricordi di una avventura vissuta tanti anni fa e ormai lontana nella memoria, sperduta nella sabbia del deserto e del tempo, ma non appena si accomoda di fronte a me su una modesta seggiola che gli rende meno penoso muoversi con la gamba malridotta che ha, mi rendo conto che la sua memoria è lucida e affilata e funziona ancora molte bene.

Il Signor Giuseppe comincia a srotolare un racconto garbato, sereno e pieno di particolari gustosi, raccontato con la naturalezza di chi si considera una persona normale che nel 1942 è capitata in Africa Settentrionale come tanti altri ragazzi della sua età, non un eroe.

“Vede” quasi si giustifica,”erano tempi in cui ci riempivano la testa di stupidaggini e propaganda e ci facevano credere di essere dei superuomini e così cominciai ad interessarmi all’Aeronautica pecchè” – tradendo col suo accento le sue origini siciliane – “a quei tempi era di moda. Eravamo giovani e un poco incoscienti, e risposi ai bandi per l’arruolamento di piloti nell’Aeronautica. Anche a quei tempi c’erano le raccomandazioni e venni scartato. Era il 1940. Comunque tenevo la capa tosta, riprovai e l’anno dopo venni accettato. Andai alla Scuola di primo periodo di Fano e presi il brevetto volando sul Breda Ba25 e sul Ro 41. Poi passai a Foligno alla scuola caccia. C’erano aerei più moderni come il CR32, il CR42 poi il G50 e in fine il Macchi 200. Poi venni destinato a Torino nel 1941.”

Cattura tutta la mia attenzione senza che io neppure me ne accorga ed è capace di trasmettermi le sensazioni che in lui sono vive ancora oggi a tanti anni di distanza. Ci riflette su e mi sembra voler giustificare i suoi impulsi giovanili. “Eravamo giovani” e lo ripete più volte, mi chiedo se per il rimpianto per un tempo passato da settant’anni o per gratitudine per averla scampata. Non parla di Caduti, di eroi o di missioni impossibili; tutte cose da cinegiornale Luce, ma che “…ci mandavano a fare le crociere sopra la strada litoranea, quella che si chiamava…” (e stendendo il braccio verso la finestra sembra voler descrivere l’interminabile lunghezza della strada), “ecco si, la via Balbia!” Ora che finalmente si è ricordato come si chiama accenna un sorriso, “partivamo in mezzo a nuvole di sabbia e non si vedeva niente ma non abbiamo mai incontrato nessun aereo inglese.” Penso che il suo sorriso significhi l’ho scampata sempre bella!. “Ce facevano andare avanti e indietro sopra la strada senza che succedeva mai niente. E poi ce mannavano sul mare a scortare i piroscafi che riuscivano ad arrivare dall’Italia. Giravamo sulle navi senza mai vedere un inglese.” Ora, sornione, mi ricorda che “avevo un solo motore, se piantava lui io finivo in mare!” Solo noia e disagi dunque, tra i campi della Cirenaica nel 42, da Bengasi….”Cuome se chiama quell’aeropotto di Bengasi..:? “ K2, butto lì io. “Ma lei conosce l’aeropotto di Bengasi? C’è stato anche lei?” Mi imbarazzo di aver fatto il saputo che ha solo letto i libri di storia. Non sto parlando con un modellista qualsiasi che se la tira con la storia della campagna d’Africa o con la colorazione dei Macchi; lui c’è stato e la guerra l’ha fatta per davvero….

“Ieppoi a Derna, poi Tobruk” e poi chissa dove altro rifletto io. “Qualche volta vedevamo passare i bombardieri inglesi che andavano verso i loro obiettivi. Erano alti, altissimi. Un giorno mi misi in testa di andarli a prendere e col mio Macchi 200 mi misi a salire, salire… 2000 metri, 3000, 4000…. Ma ero senza la maschera e quindi finii per perdere i sensi. Mi risvegliai con l’aereo che ora correva verso terra, uscii dalla picchiata, gli inglesi ora erano ancora più lontani, ma sempre così in alto…Poi ci montarono i travetti portabombe sotto le ali, bombe da 15-16 kili. (!?) Dovevamo andare ad attaccare i camion e i soldati inglesi.“

Il suo racconto ora si fa più serio. “Quando vedevamo gli inglesi scendevamo in picchiata e sganciavamo le bombe, poi passavamo le loro linee, viravamo e tornavamo indietro mitragliando quello che ci trovavamo davanti: carri, camion, uomini….Ma avevamo soltanto le due Breda da 12,7” Mentre parla le sue mani lasciano per un momento il bastone su cui si appoggia come se avesse ancora la cloche tra le ginocchia davanti a sé e avvicina gli indici a mimare le due armi. L’artrosi che li consuma li rende capaci di trasmettere la sensazione di quanto erano patetiche quelle due armi. Il racconto si fa incalzante “Una volta stavo riprendendo quota quando Bang! Quei fettusi mi hanno colpito tra la cabina e il motore. Il 200 non sta più su. Ero vicino al mare e così lo porto sopra la spiaggia e lascio che scenda da solo sopra la sabbia bagnata. Ora sono a 20 metri e l’aereo non sta più su, cade e si ferma sulla spiaggia. Qualche bernoccolo ma niente altro. Noi eravamo ragazzi incoscienti e si decollava con il solo desiderio di volare. Non ci preoccupavamo di niente altro se non di volare. Così mi trovai senza confuotti” (o “conforti” tradotto in italiano) “cioè senza acqua e razioni. Mi misi a camminare verso le nostre linee. Ma non avevo nulla con me. Camminai per due giorni; me ero cavato la divisa per il caldo, soffrivo la sete; arrivai al reticolato che era il limite delle nostre linee, mi buttai in mare e ci girai intorno a nuoto, ero arrivato? Sembrava quasi fatta quando comincio ad affondare nella sabbia soffice, Minchia! sabbie mobbili!. jè el mare che le imbeve e te ce fa sprofondare. Muoversi era una sofferenza, ma un passo alla volta sono riuscito ad uscire. La fame ma di più la sete erano insopportabili, non je la facevo più a cammenare, un ultimo sforzo per raggiungere una duna solo un poco più alta per vedere più lontano….e poi cado nella sabbia. Me sono visto la motte in faccia!!”

Nella sua cadenza dialettale sottolinea quel momento. “Devo dire che ho proprio visto la morte in faccia ma non era il mio momento e mi risvegliai in un accampamento di beduini. Mi diedero da bere dell’acqua salmastra e quella cosa…. del cus cus! e mi rimisero in sesto. Me tennero con loro per qualche gionno e devo dire che non si stava male. Me portarono dentro ad una delle loro tende; c’era qualche donna ma erano tutte dentro a quei barracani neri e se vedevano solo gli occhi. Uomini da una parte, donne dall’altra parte, la tenda era divisa da un pesante telo. Io me sprofondai a dormire, ero stanco muotto. Ma il sonno era agitato, ogni tanto me svegliavo. Da un taglio nel telo che divideva la tenda vidi spuntare una mano che me offriva dell’acqua, dopo ancora che me porgeva del cus cus.

Bedda Matri, pensai, non sarà che la prossima volta la mano se ne esce con un pugnale? Ma tutto andò bene e dopo un po decisero di riportarmi dagli italiani e tre o quattro di loro mi accompagnarono dove giorni prima erano dei nostri reparti. E c’erano ancora, così i beduini furono ben felici di rivendermi alla Divisione Pistoia. Forse l’Ufficiale pagatore fù un po meno felice di pagare il mio riscatto” (pecore? cibo? o moneta ma Lire o meglio ancora già delle Sterline?). “Il prezzo non doveva essere stato poi così basso e quindi furono molto svelti a rispedirmi al mio Reparto. E così ritornai alla vita di prima ma ora le cose si mettevano male e mi feci tutta la via Balbia questa volta nell’altro senso. Prima Misurata poi Tripoli, poi la Tunisia e là infine ci fermammo sulla Linea Maginot” Ehm, non credo, azzardo timidamente,forse si tratta della Linea del Mareth. “Ah si. jè vero è il Mareth, cosa vuole, è passato così tanto tempo.” E sorride sornione.

“Qui ci fermammo ma per poco, pecchè ora c’erano pure gli Americani. Ci comandavano di volare ma tra noi ci chiedevamo a cosa servisse ormai e la risposta era: “Per far vedere che ci siamo ancora”!. Ha capito?” E si incavola, “loro dicevano per far vedere che ci siamo ancora, ma eravamo noi a volare ed ogni giorno che passava eravamo sempre di meno. Finchè fummo tutti costretti nel piccolo territorio di Capo…. Capo Bon. Conosce Capo Bon, è quella piccola penisola vicino a Tunisi”. La voce è più agitata, scorre ore più penose e la memoria perde qualche colpo e le mani si stringono al bastone. Non credo siano state delle belle giornate. “Vedevo arrivare i convogli di trasporti Savoia Marchetti  che venivano dall’Italia, mandati a cadere in mare dagli Stati Maggiori per far vedere che c’eravamo ancora. Arrivavano, quando potevano farlo, tutti sforacchiati, scaricavano morti e feriti che neanche erano arrivati in Africa. Gli alleati sparavano a tutto quella che veniva dall’Italia ma ci accorgemmo che lasciavano stare gli aerei della Luftwaffe che tornavano indietro. Pecchè? Non saccio. Così, con qualche commilitone rimasto, riuscimmo a scroccare un passaggio su uno Junkers che tornava a Trapani. Quando eravamo in volo vedevamo aerei andare e venire ma nessuno ci venne a disturbare fino all’atterraggio a Castelvetrano.

Ora eravamo senza Reparto e dunque ci comandarono di spostarci a Comiso dove era un grosso campo della caccia che si stava riorganizzando. C’era il Capitano Bellagambi. Ero quasi vicino a casa ma anche vicino alle spiagge dove il 10 luglio 43 sbarcarono gli inglesi. Salimmo su una vecchia corriera E tornammo in Calabria e poi su, su a Roma e sino a Torino dove arrivò anche l’8 settembre.” C’è una piccola traccia di vergogna e scandalo nella sua voce, quando descrive di come i militari vennero lasciati soli a tentare di fronteggiare quella situazione. Cercare abiti civili, un rifugio dove attendere che succede…. Ma la vita va avanti e uno zio a Pavia riesce a fornire dei “veri” documenti falsi a prova di tedeschi e persino un lavoro tranquillo presso il Genio Militare. Tutto quanto serve per imboscarsi un po e per salvare la pelle. E questo non è cosa che il Signor Giuseppe mi sembri sottovalutare.

Ma la passione per il volo e la gioventù non si sopiscono. E così quando si incontra un compagno dell’ormai lontano corso a Fano che ora si è arruolato nell’Aviazione Repubblicana, il Signor Giuseppe si trova davanti ad un grave dilemma: arruolarsi di nuovo? “Ripensavo a quanto mi aveva detto il mio amico: ogni bombardiere alleato in meno sono bombe in meno sulle nostre case e morti in meno tra i nostri civili. Ci pensai a lungo e così senza calcolo politico, ma solo per generosità perchè mi sembrava che la popolazione fosse lasciata indifesa davanti agli attacchi aerei, finii per arruolarmi persso il 2° Gruppo della Aviazione Nazionale Repubblicana sul campo di Bresso. Questa volta mi toccò il Fiat G55!! Che aereo! Coi cannoni da 20. Mi sentivo un Padreterno. Solo dovevo prender confidenza con l’aereo e cominciai dei voli di addestramento.

Una mattina il mio capo sezione aveva voglia di fare vedere quanto era bravo col ’55 e venne all’atterraggio in un modo che mi obbligò a sorvolare il tetto di un hangar. Eravamo già bassi, ripresi quota ma urtai il tetto con una gamba del carrello. Che botta! Riattaccai e stavo controllando i danni quando venni raggiunto da quello sciagurato del capo sezione. Mi faceva dei grandi cenni con la mano. Mi voltai e vidi che lasciavo una striscia di fumo: nella botta il carrello era venuto via e aveva danneggiato il radiatore! Il motore si stava grippando. Dovevo lanciarmi ma ero sopra il centro di Milano. Sotto c’erano le case non potevo lanciarmi ma l’aereo non stava più su. Sganciai il tettuccio, mi issai con le mani sui lati della carlinga e fui investito dall’aria. Dovevo lanciarmi ma non riuscivo ad uscire. Lasciati i comandi l’aereo cadeva al suolo. Più mi sforzavo di tirarmi fuori dalla carlinga e più l’aria me sbatteva sotto. Ma ero lucido, lucidissimo! Ce la misi tutta per tirarmi fuori, me ricordo che pensai tra me: “Minchia de un aeroplano, lasciami fare gli caz…. mia e  poi  vai dove te pare a fare gli caz…. tua!!! Un ultimo sforzo e venni fuori ma l’aria mi gettò all’indietro e andai a sbattere contro la deriva. Che botta! Me ricordo solo che allora tirai la cordicella del paracadute, c’è l’ho ancora di là in salotto!!! L’ho tenuta per tutti questi anni! e persi i sensi. Mi dissero che ero caduto sopra la linea ferroviaria che passava vicino a Viale Monza.”

Seguo la sua descrizione ed annuisco con la testa, lui mi guarda e mi chiede “ Conosce Viale Monza? A Melano,?” Si, lo conosco rispondo frettolosamente ma non gli dico che da bancario, meno gloriosamente di lui, non ci sono caduto col paracadute ma ci sono passato col bus per andare ai corsi di aggiornamento. “Me svegliai all’ospedale e mi dissero che ero caduto sopra ai binari e il paracadute mi aveva deposto fuori dal viadotto della ferrovia e proprio sopra al marciapiede della strada. Così mi avevano raccolto e portato all’ospedale. Avevo la gamba sinistra sfracellata e il polmone ferito. Chiesi che ne era stato del mio aereo, volavo sopra la città… mi dissero che era andato a cadere proprio sulle rotaie della Stazione Centrale, ma lontano dai marciapiedi. Ne fui sollevato, pensai che al massimo si era fatta male qualche rotaia ma nessuno era ferito e non era andato a cadere su qualche casa. Se qualcuno si fosse fatto male ne avrei sofferto per tutta la vita e anche ora. Così passai lunghi mesi in ospedale ed addio al Gruppo Caccia. Quel mio amico mi veniva a trovare ma dopo un po non potè più venire. Al suo posto mandò sua sorella ……”

E da qui in avanti con pacatezza e garbo non parla più di fiammanti aeroplani ma di una Signora e di due Figlie e di tanti anni felici passati insieme a loro ed allora questa per noi diventa un’altra storia. Ci congediamo dal Signor Giuseppe al quale auguriamo ancora tanti giorni sereni e con ammirazione e un pizzico di invidia ritorniamo ai nostri forum, invecchiamenti, libri e modellini e discussioni se il verde era più grigio o il blu tendeva al giallo.. Il suo racconto mi ha tenuto incollato per una buona ora e mezza. Mi ha raccontato delle cose che hanno marcato la sua vita come se mi descrivesse come ha passato lo scorso Natale, con semplicità e pacatezza, senza vanagloria o retorica. Sapeva che ero interessato al suo racconto e così mi ha raccontato di un ragazzo che si è trovato in cose più grandi di lui che ha fronteggiato da scavezzacollo, con la generosità ed inconsapevolezza dei giovani. I suoi occhi sono limpidi e guardano dritto e la voce non ha esitazioni. Trasmettono la signorilità e l’equilibrio che vengono dalla saggezza della sua età.

E mi ritorna in mente Pierre Clostermann, l’asso della Francia Libera autore de La Grande Giostra, che avevo incontrato vicino ad una “Spitfaieure” (si, proprio così, alla francese) circondato da una folla di curiosi. Peccato, lui non mi concesse il suo autografo, Lei, Signor Giuseppe, mi ha portato nel mondo dei suoi ricordi…

Chiacchierando scoprimmo di avere un altro interesse comune: lo stoccafisso accomodato. “Ho una colf che è una cuoca bravissima, Gradirebbe pranzare da me  con lo stuoccafisso? Lo fa che è eccezionale! E ne fa sempre una pentola piena!”  Per non contrariarlo accettai e capii in seguito di aver fatto davvero bene. Mi telefonò entusiasta dopo pochi giorni: “Può venire dopodomani, c’è lo stuoccafisso!” Mi presentai con una bottiglia di bianco e scoprii che il Signor Giuseppe era anche un ottimo conoscitore di vini.

Che scorpacciata epica: arrivò un pentolone fumante e quello stoccafisso me lo ricordo ancora adesso, con pinoli, acciughe, capperi olive e chissà cos’altro ancora. Ero troppo occupato a consumare per fare domande. E mi piace ricordare che ci trovammo più di una volta seduti intorno a quel pentolone.

Ora che ci ha lasciato, tutti noi La ricorderemo sempre con affetto e rimpianto. Grazie per la storia che ci ha raccontato e anche per lo stuoccafisso!.